Probabilmente, sarebbero le uniche parole che Giulini e dipendenti vorrebbero sentirsi dire in questo periodo.
Abbandonare questa pessima situazione, ridestarsi, macinare punti e ritrovare il sorriso di un intera piazza, con i tecnici di scena che improvvisano un applauso, facendo tirare un sospiro di sollievo alle vittime dello scherzo.
Invece, fuor di metafora, non si tratta una burla, ma è il triste presente di un Cagliari smarrito e fragile.
Se i sogni di gloria da sempre si scontrano con la dura realtà, ridimensionando spesso le aspettative, accade anche che gli incubi trovino terreno fertile la dove la situazione è già pesante di suo.
Ed è così, che tra sconfitte, ultimo posto, cambi di allenatore e conclavi nello spogliatoio, continui a piovere sul bagnato. Infortuni, squadra decimata, scelte obbligate per Mazzarri. Di tutto un po' insomma, condito da alibi più o meno giuste adatte ad ogni evenienza.
Anche un presidente che diserta lo stadio, ad esempio, certamente non è un segnale di benessere dell'ambiente, ma di stizza e nervosismo.
E se il messaggio lanciato ai calciatori è quello di “adesso uscite voi da questa situazione, io sto in disparte”, probabilmente non è la giusta medicina per questo Cagliari così malconcio e incerottato.
Al di la di ciò che trapela dalle dichiarazioni ufficiali infatti (spesso frasi di circostanza), è più al “non detto” che bisogna prestare attenzione.
Che per come si siano messe le cose, non sia un annata normale – lo hanno capito anche i pali delle porte – si tratta dunque di cogliere i gesti, il linguaggio dei corpi, gli atteggiamenti, la scelta di esserci o autoescludersi dalla barca che affonda.
Delegare infatti, specie nel calcio, non significa acquistare calciatori e sperare che il loro attaccamento alla maglia sia direttamente proporzionale a quello che costano. E magari, se questo non viene fuori, offendersi col professionista perché “reo”di non metterci il cuore.
Delegare, significa fornire gli strumenti utili al calciatore che possano servire durante una stagione per giocare in una piazza e sentirsi coinvolto nei valori di una maglia che incarna una tradizione.
Chi, se non i vertici o la dirigenza, dovrebbe farsi carico di quest'onere?
Tutto il resto sono spot, marchette, frasi vuote, buone per un cartellone pubblicitario e nulla più.
“Una terra, un popolo, una squadra”. Il Cagliari di Mazzarri non è, per ora, nulla di tutto questo e la colpa non può essere solo del mister o dei calciatori.
Chi sta ai vertici, in primis Giulini, dovrebbe rendersi conto che il Cagliari non è una macchiana a cui basta un pieno per fare mille miglia.
E' un fuoco i cui valori vanno alimentati nel tempo. Fatti riconoscere ai nuovi arrivati, ricordati ai senatori e sottolineati in ogni occasione in cui il gruppo minacci smarrimento.
Altrimenti nulla ha più senso.
Guardarsi in faccia nello spogliatoio alla dodicesima giornata e far la conta di chi se la sente di continuare o è disposto ad andar via, sottende che di errori di gestione ce ne sono stati eccome.
Troppo presto, troppo a mani basse, troppo brutto tutto per essere vero. Invece è così, e il prossimo avversario si chiama Sassuolo al Mapei Stadium.
Mazzarri, se sarà lui in panchina, avrà tanto da lavorare per non tornare sconfitto anche dall'Emilia, e la sosta magari, lo aiuterà nel far svuotare l'infermeria.
Da qui al giorno della gara, testa bassa, musi lunghi e pedalare.