Non ho mai chiesto al tempo di fermarsi solo perché sapevo che non l'avrebbe mai fatto. Ha sempre camminato a testa alta e senza mai voltarsi, divorando i minuti e sbranando le ore, trasformando l'incoercibile poesia del presente in consumato passato, in libri di storia che andranno in soffitta, accogliendo anno dopo anno ogni millimetro di polvere che si depositerà su di essi. Il loro contenuto diventa meno chiaro, le immagini meno nitide, e ciò che pensavi avresti ricordato per sempre diventa solo il breve ed inconsistente richiamo della nostalgia.
È per questo che non capisco perché un libro, quel libro, non invecchia mai. Le pagine son sempre lucide, le immagini son tanto chiare che sembrano parlare. A fianco a lui un calendario segna una data che non vuole saperne di essere dimenticata, mentre lui ci giura di non avere altre pagine successive. I giorni passano, gli anni volano e i bimbi crescono e diventano uomini. Ma quella data è sempre lì, sembra fissarti e pare supplicarti ancora una volta di tornare indietro. Non puoi accontentarla, nessuno può.
Ma puoi raccontarla.
È il 12 aprile 1970, il giorno dei giorni. Quello in cui le speranze di rimonta-scudetto dell'Inter di Mazzola e Boninsegna e della Juve di Haller e Anastasi si schiantano su quel sogno ad occhi aperti chiamato Cagliari. Il Nord dietro al Sud, come mai era successo, la valigetta di cartone lanciata in mare, quello sardo, quello che per una notte si tinse di tricolore.
Eppure è pieno pomeriggio quando Riva e Gori annientano il Bari, mentre dagli altri campi giungono via radio le notizie che tutti aspettano, quelle che consegnano la vittoria del campionato ai sardi, mandando un'isola intera nel delirio.
La festa si propaga a macchia d'olio in tutta la regione, e l'urlo, per anni strozzato nel silenzio dell'indifferenza del resto d'Italia attraversa il Mediterraneo, lambisce le coste della penisola e arriva a destinazione: "Cara Italia, ci siamo anche noi".
È il riscatto sociale di un popolo per anni identificato unicamente nello stereotipo pastorale, è la dolce vendetta di un'isola dimenticata a sé stessa che finalmente grida.
Il chiasso rossoblù fa eco, rimbomba, un assolo del chitarrista in un cimitero abbandonato, uno scroscio di cascate nel deserto, un Rombo di Tuono nel sole sardo, e nemmeno per caso.
La gomma cancella i pregiudizi e i luoghi comuni, e mentre una mano la lascia lentamente cadere un'altra sta già afferrando una penna. Prende un libro in mano, è quello troppo vuoto dell'isola ignorata. Le pagine bianche son molte.
Da quel 12 aprile inizia il racconto di una storia senza giorni, quella delle lancette immobili, quella di un tempo che non sa più camminare. La penna scrive, l'inchiostro si consuma, il libro sta ancora lì, la polvere non c'è e il calendario, bugiardo e mosso dal vento, rivela l'esistenza del 13 aprile.