Mario Beretta è un uomo che, dopo aver passato parte della sua vita sui campi di calcio nelle serie maggiori, e dopo aver tratto anche diverse delusioni da queste esperienze, ha deciso di smettere con il calcio dei professionisti e dedicarsi alle squadre giovanili. Per fare questo ha deciso di ripartire da Cagliari, dove da qualche mese è responsabile di tutte le compagini minori della società rossoblù e si è posto un obiettivo preciso: aiutare la Sardegna a sfornare campioni. In una lunga intervista a “Il Manifesto”, Beretta spiega la sua decisione e parla del suo nuovo ruolo. Un obiettivo emerge chiaro: al Cagliari si vogliono allevare giovani campioni ma, soprattutto, uomini.
Mario Beretta, perché questa scelta?
"Da qualche anno pensavo a un possibile ritorno al settore giovanile, non come allenatore, ma come responsabile del settore tecnico. La mia carriera è iniziata dal settore giovanile, mi è sempre piaciuto lavorare con i giovani, anche quando allenavo la prima squadra in Serie A".
Il calcio di Serie A logora?
"Negli ultimi anni ci sono state situazioni che mi hanno deluso. L’ultimo anno in Serie A, a Siena, ho lavorato in mezzo a mille difficoltà, è stata un’annata tra le più belle della mia carriera dal punto di vista dei rapporti umani, dei risultati e delle soddisfazioni professionali ma c’è stato il fallimento finanziario della squadra e mi hanno detto delle cose che non erano vere. L’anno scorso in Serie B a Latina sono successe le stesse cose, si sono verificate una serie di situazioni che mi avevano stufato. Il presidente del Cagliari, Tommaso Giulini, che conosco da tempo, sapeva della mia volontà di tornare al settore giovanile e mi ha fatto questa proposta".
Che cosa cambia nel rapporto con i ragazzi, rispetto ai professionisti della prima squadra?
"Parecchio, non sei più l’allenatore, ma il responsabile tecnico di tutto il settore giovanile, non vai direttamente sul campo. Sono responsabile a tutto tondo, il supervisore, le cui responsabilità vanno dall’area tecnica al budget, dai ragazzi che teniamo in foresteria fino alle trasferte: devi soprattutto dettare le linee guida, all’interno delle quali è rappresentata la filosofia del club. Oggi, tra i ragazzi che vivono nella foresteria della società, che sono sotto la nostra responsabilità perché sono minorenni e vivono lontani dalle loro famiglie, in sei hanno marinato la scuola, una mancanza che pagheranno con la non convocazione per la partita di domenica. L’aspetto educativo è fondamentale per far crescere i ragazzi come vorremmo, la serietà con la quale si deve frequentare la scuola è un aspetto cui teniamo molto. E’ chiaro che non essendoci multe, perché non prendono uno stipendio, devono pagare in altro modo e noi vogliamo che i ragazzi delle giovanili capiscano che prima di tutto c’è la scuola e poi il calcio. Non vogliamo essere una fabbrica di illusioni, vogliamo contribuire a crescere bravi ragazzi, se poi diventano bravi calciatori meglio. Se la società di calcio fa passare l’idea che la scuola non conta niente e che l’importante per i ragazzi sia giocare a pallone, è finita. Se un ragazzo va a scuola, ha una sua formazione culturale solida, riteniamo che possa anche fare meglio il calciatore".
Il Cagliari ha un progetto?
"A Cagliari c’è la volontà di realizzare un progetto interessante per quanto riguarda il settore giovanile, altrimenti non mi sarei mosso. Nonostante la retrocessione e la riduzione degli introiti per i diritti televisivi, abbiamo fatto dei passi decisivi a livello di strutture, realizzando un campo ultimo modello in erba sintetica, abbiamo comprato un pulmino in più, ristrutturato la foresteria e preso in affitto un grande centro sportivo, che ci costa cinque volte più di quello che pagavamo l’anno scorso, perché è molto più accogliente per la parte pre-agonistica, in cui lavorano i ragazzi dal 2003 in giù".
Cagliari è un’eccezione?
"In Italia ci sono realtà consolidate nel settore giovanile, penso all’Atalanta, all’Empoli e anche il Torino, che una volta lavorava bene in questo settore. A Cagliari è forte la connotazione sarda, c’è un senso di appartenenza alla terra molto forte. Cagliari non è solo una città, rappresenta l’intera regione, perciò è importante non farsi sfuggire i ragazzi della Sardegna, anche se qualcuno prima o poi andrà via e giocherà in altre squadre. I ragazzi che vivono in foresteria sono soprattutto del nord della Sardegna, perché non possono fare 300 km per gli allenamenti, il nostro scopo è avere il più possibile giocatori sardi. É ovvio che non possiamo bendarci gli occhi, se ci sono giovani calciatori promettenti fuori regione li prendiamo, ma devono essere di livello decisamente superiore, l’identità sarda dobbiamo mantenerla e rinforzarla".
Che idea ti sei fatto dei ragazzi sardi che vedi giocare?
"Si allenano di gran lena, vorrebbero diventare tutti calciatori di serie A, però questo non è possibile. Ad agosto, il giorno del raduno di tutte le squadre, ho fatto una riunione con i genitori, ho riportato le statistiche dell’Uefa, in cui si diceva che solo un giocatore ogni 30 mila arriva a giocare in Serie A. Non l’ho fatto per scoraggiare le famiglie, ma tutti pensano che i propri figli diventeranno calciatori di serie A e questo non è possibile: magari giocheranno nelle serie minori, tra i dilettanti. Imparare a giocare al pallone è già un grande successo, l’importante è che non smettano, che non vivano con l’unico obiettivo di giocare tra i professionisti, solo per guadagnare tanto. Vogliamo che ricordino l’esperienza di Cagliari come un’esperienza positiva, che li ha aiutati a crescere, ha insegnato loro a essere competitivi, ma in modo sano, ad accettare la vittoria come risultato di un percorso, di un lavoro fatto, non una vittoria fine a se stessa. Il nostro obiettivo è portare tanti giocatori in prima squadra, bisogna seguire con attenzione sia la squadra che l’individuo, però se non fai un certo percorso è difficile che il calciatore riesca a migliorarsi e ad andare in prima squadra".
I ragazzi delle squadre giovanili come reagiscono rispetto alle cose che dici insieme ai tuoi collaboratori?
"L’allenatore svolge un ruolo fondamentale, i ragazzi seguono ciò che l’allenatore dice. Il lavoro dell’allenatore è molto difficile, spesso si verifica che vuole vincere la partita per una sua gratificazione personale, dico sempre ai miei allenatori che non sono i ragazzi al nostro servizio ma viceversa, noi dobbiamo aiutarli a crescere, non possiamo utilizzare la squadra per i nostri obiettivi di carriera. Se l’allenatore dice certe cose ai ragazzi riesce facilmente a portarli dalla sua parte".
Chi si occupa in Italia della formazione di chi allena i ragazzini delle squadre di quartiere e di piccoli centri?
"Ultimamente a Coverciano hanno istituito i corsi per gli istruttori che hanno a che fare con i settori giovanili fino agli allievi, esistevano 30 anni fa ma poi sono stati soppressi. Nel settore giovanile del Cagliari ci sono alcuni laureati in scienze motorie, qualcuno ha un senso pedagogico innato anche se non ha la laurea, ma sono dell’idea che occorra una formazione specializzata di tutti gli allenatori che hanno a che fare con i giovani. E’ necessario avere conoscenze scientifiche, pedagogiche e didattiche, saper insegnare, saper proporre, spiegare, trasmettere, altrimenti apriamo i video di internet e li mostriamo ai ragazzi. Purtroppo il problema della Sardegna è l’isolamento, non hai il confronto. Quest’anno abbiamo quattro squadre che fanno i campionati nazionali ma qui, fino alla categoria giovanissimi, quelli di 12 anni, si gioca solo a Cagliari, manca il confronto con le altre squadre e con i tecnici. Quelli del Milan e dell’Inter fin da piccoli giocano contro il Varese, il Como, il Parma ecc. In Sardegna ci sono tanti tecnici ma con chi si confrontano se sono tutti dilettanti?"
Gli altri paesi Ue, cosa hanno fatto meglio di noi per non perdere il treno?
Hanno dato le linee guida, come è successo in Spagna, Germania, Belgio, Olanda, creando dei centri federali, alcune nazioni hanno la seconda squadra che gioca nei campionati minori, cosa che consente la crescita dei ragazzi e che noi non abbiamo. Da noi un ragazzo che gioca nella Primavera difficilmente fa il salto in prima squadra, mentre all’estero fa il campionato minore, poi quello intermedio e poi la serie C, si fa le ossa, poi la B e infine la prima squadra, vi sono più passaggi.
Il calcio italiano di cosa avrebbe bisogno per fare il salto di qualità?
"Di non guardare al mero risultato, ma di fare una programmazione, ma questo devono farlo le società, perché è difficile che l’allenatore delle nazionali giovanili con il quale i ragazzi stanno in ritiro per una settimana, possa incidere più di tanto. La selezione e la formazione dei ragazzi devono farle i club, mentre oggi si tende solo a vincere, perché vincere il campionato dà prestigio. Nella partita Cagliari-Cesena, avevamo in panchina quattro ragazzi della Primavera, questa è la vera vittoria del campionato, se vinco il campionato delle giovanili e non porto un calciatore in prima squadra ho fallito".
Perché tante difficoltà?
"I dirigenti vogliono solo il risultato positivo, nessuno si preoccupa di sapere come hanno giocato i ragazzi. Se un allenatore vince e la squadra gioca male non va bene, come pure se vince e non fa giocare tutti i ragazzi. Come si fa a dire a un ragazzo e ai suoi genitori che non lo confermiamo nella rosa delle giovanili, se ha fatto una sola partita in un anno e il resto sono stati tutti allenamenti? E come se a scuola l’insegnante spiegasse, senza fare mai le verifiche. Domenica ho visto la mia squadra, ha perso, ma se avesse vinto sarei stato ugualmente insoddisfatto, perché nel secondo tempo ha giocato malissimo, se avessimo vinto avrei comunque sottolineato all’allenatore che non c’è stato un bel gioco. Ci sono vittorie e vittorie, ma non è con una vittoria o con una sconfitta che si viene valutati come allenatori o come giocatori, occorre fare un lavoro costante ed educativo, seguendo al filosofia del club".
I tuoi allenatori come vivono queste cose?
"Ci sono delle resistenze, che incontrerei non solo a Cagliari ma ovunque. Quando uno degli allenatori delle varie squadre giovanili di una società non è impegnato con la propria squadra sarebbe opportuno che andasse in panchina ad aiutare gli altri, perché se si è in più allenatori si vedono meglio le cose. La soluzione migliore sarebbe una co-conduzione della panchina, senza timore di interferire nel lavoro altrui o toccare la suscettibilità degli altri. E’ un cammino difficile, ma qui a Cagliari abbiamo cominciato a farlo, anche se gli allenatori dicono “è la mia squadra” in realtà non è la squadra di Beretta o di un altro, ma è la squadra della società".