Partecipa a Blog Cagliari Calcio 1920

Sei già registrato? Accedi

Password dimenticata? Recuperala

Don Carlo Rotondo: "Riva mi ha cambiato la vita, Ranieri il top: in Africa con un Vangelo ed il pallone"

ESCLUSIVA - A tu per tu con Don Carlo Rotondo, Missionario e Sacerdote con il Cagliari nel cuore: "I calciatori? Dei privilegiati, diano l'esempio"

Condividi su:

Don Carlo Rotondo, originario di Sinnai, ordinato sacerdote nel 1990, è da sempre una grande tifoso rossoblù. Attualmente segretario particolare di Mons. Miglio, formatore ed educatore nell’equipe educativa del seminario regionale sardo, ha accettato di raccontarci la sua esperienza sacerdotale, dove il calcio e l’amore per il Cagliari hanno rivestito un ruolo particolare.

Quando e come nasce la passione per i colori rossoblù?

“All’età di 6 anni mio padre mi portò all’Amsicora a vedere quel Cagliari-Bari che ha cambiato la storia di molti di noi. Sono cresciuto ammirando le gesta di Gigi Riva, volendo diventare come lui. La prima maglietta che mi venne regalata, fu quella storica del Cagliari dello scudetto, alla quale feci applicare con delle cuciture due numeri 1 in pelle. Con quella maglia ho fatto tanti goal in campo e nella vita, perché anche da prete son stato e sono un numero 11”.

Superfluo quindi domandarle quale sia stato il giocatore del Cagliari che ammirato in tutti questi anni, ha suscitato in lei le maggiori gioie?

“Gigi Riva è stato un modello straordinario, diventato ancora più grande quando rifiutò il trasferimento alla Juventus. Un modello sportivo, ma anche umano di determinazione e attaccamento a dei colori e alla città”.

L’allenatore invece?

“Il tecnico che più mi ha colpito è stato Ranieri che dalla C ha riportato il Cagliari in A nel 1990, anno in cui ci furono i Mondiali di calcio a Cagliari e cosa ancora più importante il mio sacerdozio. Da prete tifoso vi lascio immaginare cosa rappresentò per me diventare prete nello stesso anno in cui il Cagliari ritornava in A. Una festa nella festa”.

L’allenatore appunto, cosa hanno in comune un allenatore e un sacerdote?

“Hanno in comune lo spogliatoio, che da noi può chiamarsi sacrestia, aula catechistica o oratorio. Un vero allenatore sa che il campo è la punta dell’iceberg. La messa è la partita,  ma se manca tutto il resto come le relazioni umane, lo stare assieme e l’allenamento, la partita di conseguenza non avrà un buon risultato. A volte anche una sconfitta può avere il sapore di una vittoria se sai che il lavoro effettuato è stato un lavoro positivo, perché lo spogliatoio e l’affiatamento prima o poi pagano”.

Nella sua esperienza sacerdotale e in particolar modo in quella vissuta come missionario in Kenya, ha insegnato tattiche e fuorigioco insieme al Vangelo…

“In Africa ho portato con me un Vangelo e un pallone perché sono figlio anche di Don Bosco. Infatti ho frequentato gli oratori di Cagliari e in particolar modo quello di San Paolo, inoltre son stato alunno del liceo Don Bosco in viale Fra Ignazio. La cultura dell’oratorio ha fatto parte della mia formazione sacerdotale. L’uomo è fatto non solo di spirito ma anche di corpo, la possibilità di utilizzare lo sport come elemento formativo umano e spirituale è un veicolo molto bello e importante. Posso tranquillamente affermare che prediche e discorsi nello spogliatoio possono coincidere. Inoltre quando si parla di missione, s’intende primariamente la volontà di assicurare il cibo, vestiti e medicine, ma anche la possibilità ai bambini di essere tali e di poter giocare”.

La Nanyuki Top Life F.C (la squadra guidata da Don Carlo Rotondo n.d.r.) che militava nella serie B keniota attirò attenzioni e simpatie in Italia e in altri paesi europei. Persino Cragnotti, l’ex presidente della Lazio vi offrì un aiuto…

È una domanda che mi rimanda indietro nel tempo e provoca molta emozione. All’epoca Cragnotti, che era titolare della “Del Monte” e di un grande stabilimento vicino a Nairobi, si accorse della mia opera. Sempre in quegli anni la Lazio organizzava un triangolare con squadre del terzo mondo e si parlò di una partecipazione della squadra da me allenata, sarebbe stato un evento pazzesco. Quando Cragnotti offrì il suo aiuto non domandai soldi, ma ebbi l’intuito di richiedere attrezzature che ci fecero fare un salto di qualità enorme. Ciò ci permise di non spendere risorse per le attrezzature e nel contempo essere verificabile negli aiuti. Un contributo economico che mi piace sempre ricordare fu quello offerto da Gianluca Festa, il quale mi fece come dono il suo premio promozione, ricevuto dalla dirigenza del Portsmouth in occasione dell’approdo in Premier League. Con tale cifra riuscimmo a finanziare e proseguire oltre il programma alimentare anche tre anni di serie B keniota”.

Il calcio italiano vive un momento di crisi culminato con l’eliminazione dai prossimi mondiali in Russia. Lo sport come veicolo di svago e aggregazione, non è più vissuto come tale?

“Il calcio dovrebbe partire dalla concezione che esso non rappresenta un mestiere, ma deve essere uno strumento per poter uscire dalla crisi che ci attanaglia. Molti ragazzi seppur con la prospettiva di ottenere buoni guadagni, non hanno voglia di sacrificarsi attraverso l’allenamento quotidiano. Di persone che facciano spogliatoio oggi più che mai se ne sente l’esigenza nel calcio, nella Chiesa, nelle scuole e nelle famiglie. Oggi ci ritroviamo nella condizione di perdere, perché ognuno da solo cerca di vincere all’insegna dell’individualismo e della paura verso le persone che ci circondano”.

I calciatori professionisti, dei privilegiati: quali valori cristiani e civili sono chiamati a rappresentare?

“Ci sono giocatori che fanno partite di beneficenza ma non donano nulla direttamente a chi ha bisogno. Essi non hanno capito cosa è il calcio ed il fatto che sono costantemente osservati dai bambini; devono rappresentare un modello di vita, non certo perché ricevono enormi guadagni. Sono dei privilegiati che non devono innalzare muri per distinguersi dalle altre persone. Il cristianesimo non è la religione dei poveri, ma la religione della solidarietà, dei ricchi che aiutano i poveri. Oggi mancano i Gigi Riva e persone che facciano scelte umanamente vincenti”.

La Chiesa può rivestire un ruolo importante nella società, capace di coniugare i valori cristiani e l’amore per lo sport?

“La Chiesa, sollecitata da Papa Francesco e non solo, ha la coscienza di dover recuperare un ruolo importante in tal senso. Così come il calcio italiano dovrebbe ritornare ad essere quello che era in passato. Occorre avere più coraggio, ma non il coraggio dei soldi o della potenza economica, ma il coraggio delle scelte mettendo al centro l’uomo. Il valore della società è rappresentato dalle persone. La Chiesa deve avere meno strutture e più relazioni, ma ogni cristiano è chiamato a fare la sua parte”.

Era presente all’inaugurazione del museo alla “Sardegna Arena” e spesso segue il Cagliari nelle partite casalinghe. Come giudica il momento della squadra allenata da Lopez?

“Emblematica è stata la sconfitta in Coppa Italia con il Pordenone, perché, a seguito del turnover attuato da Lopez, i giocatori impiegati non hanno profuso l’impegno auspicato. Non vedere un atteggiamento adeguato, mi porta a pensare che i problemi del Cagliari non siano soltanto tecnici. Non è possibile che 11 giocatori giochino bene e i cosiddetti rincalzi non siano all’altezza. Nel calcio moderno ogni squadra deve poter contare su 15-16 giocatori di pari livello. Da tifoso dico che probabilmente la sconfitta in Coppa per la società fosse indolore”.

Don Carlo, il Vangelo dice: "Dio o Mammona"...

“Mammona, il denaro, i beni materiali, possono essere uno strumento per fare del bene e arrivare a Dio. Il fine ultimo deve essere sempre e comunque Dio”.

Condividi su:

Seguici su Facebook