Bandiera del Cagliari durante gli anni ’50 e ’60, Tonino Congiu appartiene anche a quella ristretta èlite dei capitani sardi con la casacca rossoblù. Ai nostri microfoni l’ex giocatore racconta interessanti retroscena e illustra diversi aspetti di quegli anni, con intramontabile affetto verso la squadra.
Signor Tonino, uno dei suoi gol più prestigiosi certamente quello alla Roma all' Olimpico, in Coppa Italia, è così?
“Assolutamente. Di sicuro è stato uno dei più spettacolari. Una mezza girata acrobatica, seppur ininfluente ai fini del risultato finale, poiché perdemmo 2-1. Va ricordato anche il gol all'Amsicora realizzato ai giallorossi, di testa. Io, sotto il metro e settanta, che infilo il lungagnone Cudicini, alto due metri e due, beffandolo sul primo palo. Poi ne ho segnati due da centrocampo, sfruttando la collaborazione del maestrale che soffiava dalle mie spalle, uno all'Anconitana, l'altro al Modena. Poi alcuni li ho segnati direttamente dalla bandierina, ricordo quello segnato in casa contro il Como”.
I compagni di squadra con cui ha legato maggiormente?
“Forse può sembrare un po' strano, ma sono stati Nenè, a cui va il mio ideale abbraccio, e il compianto Gallardo. Si scherzava ironicamente e con molta simpatia sul loro essere di colore. Due ragazzi stupendi”.
Cosa ha rappresentato per lei Mario Tiddia?
“Mi ha accompagnato nella mia scalata nel Cagliari durata 33 anni. Avevamo entrambi quattordici anni quando facemmo insieme l'ingresso nel settore giovanile, dopo essere stati notati nel corso di una partita con una rappresentativa. Poi io feci a Parma il mio esordio in prima squadra. Oltre che nel rettangolo di gioco, l'ho accompagnato a lungo anche dopo, nella sua carriera di allenatore, come suo vice. Colgo qui l'occasione per dire come talvolta il tecnico in seconda può avere un ruolo determinante. Per varie ragioni, può avere maggiormente il polso della situazione su particolari aspetti. Alcuni giocatori si possono sentire più liberi di sfogarsi e confidarsi col vice. Poi sta a lui gestire con saggezza questo genere di situazioni, mettendosi sempre al servizio dell'allenatore, e della squadra. A più riprese sono stato invitato dai presidenti ad assumere la prima guida, ma ho sempre rifiutato, per rispetto delle persone insieme alle quali ho lavorato: lo stesso Mario, poi Giagnoni e Veneranda. Ogni volta che loro lasciarono o si dimisero, contemporaneamente lo feci anch'io. Se non avevo l'obbligo, preferivo - da vice - andare in tribuna e non in panchina, da dove comunque non mi sono mai alzato per dare indicazioni, per rispetto dei ruoli. Oggi non tollero mister e vice quando confabulano in panchina, le sedi per farlo trovo che siano durante la settimana e negli spogliatoi. Mi rimane infine la soddisfazione di aver portato io direttamente sei/sette elementi dalla Primavera direttamente in prima squadra”.
Su Tiddia, qual è un aneddoto mai scritto o raccontato?
“Me ne viene in mente uno, non strettamente legato al calcio giocato. Siamo a Torino e partiamo dal venerdì, per fare un pellegrinaggio a Superga. Il pullman parcheggia a una cinquantina di metri dal punto della tragedia, e nel sentiero io e Mario portiamo insieme una corona. Camminando, vediamo dei lumachoni enormi, giganteschi. Al ritorno mi dice: “Tonino, dai che ci fermiamo a prenderne alcuni”. Aveva intenzione di provare a farne un vivaio, nelle sue serre di Sarroch. Procuriamo una scatola di cartone e ne raccogliamo una cinquantina. Quando liberiamo l'albergo, due giorni dopo -la domenica prima della partita - vediamo la camera invasa da questi lumaconi, che avevano divorato il cartone, e mangiucchiato i vestiti e le divise sociali. Mario rideva a crepapelle vedendo quella scena. Da giocatore lo associo a un De Sciglio di oggi, un ragioniere, tranquillo, pulito negli interventi, ma con molta grinta. Solo un difetto: col cantar del gallo era in piedi. Alle sei, alle prime luci dell'alba, era sempre già attivo. Non riuscivo mai a convincerlo a berci un aperitivo. Da allenatore riusciva a rendere semplice il rapporto coi giocatori, senza mai urlare”.
La questione della maglia numero 11, sua prima di Riva?
“Voglio dare al fatto un tipo di lettura diverso da quella mediatica. Innanzitutto, ancora oggi, nella Basilica di Bonaria, compare una maglia rossoblù col numero 11, e la indossavo io e non Gigi. Risale al 1964, e la mise mia madre, come voto perché venissimo promossi in Serie A. Poi Gigi e io non eravamo due cloni, potevamo tranquillamente coesistere, come ha fatto con Rizzo e Gori, perché io ero ambidestro e potevo giocare a destra senza pestarci i piedi. Silvestri la pensò diversamente. Quanto al fatto di ritirare la maglia, io sono contrario per principio. Esistono diverse forme di riconoscenza. Il bambino di dieci anni deve essere stimolato a poter indossare il numero di maglia del suo campione preferito, a quell'età non sta certo pensando al campione nella sua nicchia”.
Rimpiange il fatto che se fosse venuto fuori pochissimi anni più tardi, avrebbe potuto far parte della squadra Scudetto?
“Ne potevo fare parte lo stesso. Fisicamente ero a posto quando lasciai, e diedi piena disponibilità a partire come riserva per provare a conquistarmi il posto. Sono stato cercato da diverse società di A, compreso il Napoli. Ma dissi solo: “Fatemi giocare almeno una partita in Serie A”. Mi accontentarono poi mi estraniarono. Silvestri la pensava cosi. Al pari di Gigi, anche io ho immolato una gamba alla causa rossoblù, a causa di una scellerata entrata di Schiavone. Ero poi molto ambizioso, mi sono sempre allenato anche personalmente, usando paletti e bastoni, per raffinare i fondamentali e le giocate come i dribbling”.
Già ai suoi tempi il Cagliari era sacro per gli emigrati?
“Si, direi proprio di si. Anche in trasferta il tifo e il sostegno non ci è mai mancato. Ricordo nitidamente il falò acceso nel gelo di Busto Arsizio, dopo la partita contro la Pro Patria, dove venni invitato a degustare del pane e formaggio sardo, insieme a tifosi del Cagliari”.