I tristi e preoccupanti avvenimenti degli ultimi tempi legati al CoronaVirus fanno tornare alla mente le immagini che la storia ci aveva abituato a legare ad un altro periodo sventurato: gli anni della Peste nera in Sardegna.
Come prima cosa, inquadriamola nel tempo. Parliamo della Sardegna degli anni 1652-1657, nel periodo della dominazione spagnola nell’isola, in un periodo in cui la “morte nera” falcidiava l’Europa mietendo migliaia di vittime, devastando l’economia e riducendo alla miseria interi villaggi, letteralmente abbandonati a sé stessi ed al morbo.
La Sardegna si presenta in quegli anni come una terra in costante e deciso impoverimento, stremata dalla crescente pressione fiscale spagnola che la dissanguava per finanziare la Guerra dei Trent’anni contro l’espansione asburgica.
La “morte” arriva in Sardegna a bordo di un mercantile approdato ad Alghero, secondo porto dell’isola dopo Cagliari. Il male, portato dalle pulci dei ratti, in assenza di controlli sanitari, si diffuse rapidamente dapprima nella cittadina e poi, sempre più dilagante, nelle campagne seguendo il percorso più battuto dagli spostamenti degli uomini e delle merci.
La Sardegna diventa suo malgrado crocevia della malattia, contribuendo grazie al commercio ad esportare il morbo fino a Napoli, Genova e Roma.
La paura era tanta, il terrore faceva diffidare di chiunque, qualsiasi contatto o vicinanza potevano essere letali.
Si era arrivati addirittura a non pronunciare il nome della malattia, era talmente tanta la paura e la follia che generava che il solo nominarla creava il terrore, in un attimo ci si poteva ritrovare ad essere definiti “untori” e venire uccisi dalla folla impazzita.
La malattia, la paura della malattia e l’impotenza davanti alla stessa, i malati ed i moribondi ad ogni angolo di strada uniti alla fame, alle repressioni sempre più cruente fecero scoppiare numerosi tumulti sedati con altrettante condanne a morte.
Le scarse conoscenze in ambito medico e la totale mancanza di adeguate misure igieniche e di profilassi, specie nelle zone rurali, portarono ad un inevitabile crollo demografico.
La peste in breve tempo diventa una punizione divina per espiare le enormi colpe degli uomini, “sa callentura de su mali”, “su castigu de Deu” che non si poteva evitare, nessuno poteva sfuggirle, sarebbe stato inutile.
Chiunque fosse dichiarato “appestato” dalla commissione “Junta del morbo”, veniva letteralmente sigillato in casa con tutta la famiglia; i decessi furono talmente tanti che spesso i moribondi venivano infossati ancora vivi.
Un dato su tutti: negli ultimi mesi della pestilenza, si registrarono fino a 200 decessi al giorno nel solo Lazzaretto del capoluogo sardo.
Tale scenario disastroso determina il fiorire di opere caritatevoli e voti religiosi, nella speranza di ottenere l’intercessione favorevole dei numerosi Santi, specie taumaturghi, dell’isola; il più noto, tra i tanti voti espressi all’epoca, fu quello della municipalità cagliaritana legata al santo martire Efisio.
E, per chi ha fede, l’intercessione di Efisio spazzò via la Peste, la terribile Morte a cavallo citata nell’Apocalisse di San Giovanni lasciò l’isola che seppur decimata, stremata, affamata e ancora tremante pian piano ricominciò a vivere, a commerciare, a sperare.