Parlare di amuleti e riti scaramantici potrebbe far esclamare ai più “Non è vero ma ci credo” rubando le parole di Peppino De Filippo ed al quale, più o meno sommessamente, si unisce la maggior parte di noi. Sì perché, inutile negarlo, anche le menti più razionali e scostanti cedono al fascino della superstizione.
Ciascuno di noi prova a combattere sortilegi e malefici con oggetti cui attribuiamo poteri magici, nella speranza di prevenire sventure e malattie, per allontanarci “s’ogu malu”.
Che ci si creda o meno, questa antica panacea ha certamente il potere di aiutare ciascuno di noi ad affrontare le piccole e grandi avversità quotidiane, accompagnandoci in svariati impegni anche del nostro vivere moderno.
Se volgiamo lo sguardo al passato, scopriamo che la parola Amuleto deriverebbe dall’arabo jamalet, con il significato di “portare con sé” o dal latino amolior, nel senso di “tenere lontano”.
Nella cultura popolare, l’amuleto trae origine e soprattutto forza dalla natura; sono infatti numerosi i talismani che nascono dalla terra, tra i minerali oppure nel mondo agrario, tra cortecce, semi e foglie, o dal mondo animale, specie tra molluschi e coralli. Ciascuno di essi però, per diventare magico, aveva bisogno di essere “lavorato” dalle piccole e sapienti mani delle Janas.
Nell’immaginario comune, gli amuleti sono generalmente oggetti preziosi o addirittura gioielli. Questo perché amuleti di origine naturale, seppur potenti e grandiosi, non sconfiggono il tempo che con il suo scorrere li deteriora, donandoli all’oblio.
Nel corso dei secoli, gli amuleti hanno tuttavia resistito alle invasioni straniere, alle leggi, alla religione nella quale spesso anzi sono stati inglobati. Il confine tra mondo cristiano e la superstizione è, in Sardegna, spesso piuttosto labile in una commistione di riti e credenze che hanno convissuto e si perpetuano ancora oggi.
Trattandosi di oggetti attivati da rituali quali “is brebus” o “sa mejina” gli amuleti entrano d’appannaggio nella sfera femminile della nostra società, sebbene la cultura tipica della donna sarda sia decisamente povera di frivolezze.
Tuttavia, è proprio in linea femminile che tali amuleti, con il loro bagaglio di riti e preghiere, vengono custoditi e tramandati come veri oggetti “sacri”. Lo stesso materiale prezioso più diffuso, l’argento, è legato al culto della luna e tipico della sfera femminile. Si ritiene infatti che l’oro vanifichi l’effetto protettivo del talismano, relegandolo al mondo del semplice gioiello, privo qualsiasi potere protettivo.
Tra i tanti amuleti che proteggono la nostra esistenza, impossibile non menzionare i più noti e diffusi: “sa punga” e “su Kokku”.
“Sa punga” è un piccolo sacchetto di stoffa, più o meno preziosa, da fissare agli abiti con piccole spille o da portare appesa al collo. Al suo interno, generalmente, contiene semi, oppure sali o ancora erbe ma più spesso piccole reliquie o formule scritte da persone di riconosciuto potere salvifico. Venivano usati pere scopi ben precisi come ad esempio durante il parto, o in casi di aborto pregresso o moria del bestiame e servivano prevalentemente per impedire il peggioramento della situazione.
“Su Kokku” invece è una piccola pallina (coccum dal latino, noce) generalmente in ossidiana o onice nera, o più semplicemente in pasta di vetro nera, montata tra due lunette di filigrana in argento, è un “occhio” che vigila, attirando li sguardi malevoli e dal malocchio, imprigionandoli al suo interno fino alla rottura, con lo scopo di proteggere chi li indossa.
La tradizione vuole che debbano essere sempre donati e “attivati” opportunamente con il rituale più adatto allo scopo ma oggi entrano a buon titolo anche nel semplice mondo della gioielleria, gradito regalo da qualunque donna, e non solo in Sardegna.